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Sempre più spesso, nelle liste vini dei ristoranti, trovo elencati vini con caratteristiche organolettiche affini o addirittura simili in barba all’enorme varietà del patrimonio ampelografico italiano ed europeo. Per offrire una possibilità di scelta variegata non è necessario avere cinquanta o più etichette in lista ma ne bastano già venti; naturalmente ciò presuppone una discreta conoscenza delle caratteristiche dei vitigni e dei diversi terroir oltre alle metodiche di vinificazione ed affinamento ma, soprattutto, è necessario averli assaggiati.
Per dimostrare ciò, ho organizzato una degustazione tra amici-clienti con 5 vini rossi (di cui uno dolce) radicalmente diversi a livello gustativo cercando di seguire una sequenza di assaggio crescente per impatto tannico ed alcolico; inoltre, abbiamo approfittato per “testare” due vitigni internazionali coltivati in zone atipiche (influenza del terroir) e da “mani atipiche” ed altri due vitigni identici o quasi ma vinificati e soprattutto affinati diversamente spaziando anche tra le vendemmie (dal 2013 al 2022; Insomma, un condensato di nozioni ed emozioni in poco più di due ore! Iniziamo con il primo vino rosso, carico di acidità (secchezza), mineralità e “terrosità” con un volume alcolico pari al 13%; il colore “sporco” e con bordo decisamente aranciato ci fa capire che è un pinot nero, il progenitore dei vitigni proveniente da una delle terre emerse più antiche: la Borgogna! In bocca ha tutte le caratteristiche del vitigno in oggetto tranne la mineralità (sapidità) che è molto accentuata e piacevolmente “diversa”; scopriamo l’etichetta (tutte le degustazioni nella carboneria del vino iniziano alla cieca) e leggiamo Etna ovvero sapidità lavica, quelle sabbie scure che nutrono la vite e ne drenano le piogge in eccesso.
Il Sant’Elia del barone Spitalieri è frutto di una vigna impiantata nel versante sud-ovest dell’etna (lontano dai crateri) a quasi 1000 metri di altitudine nel lontano 1855 (ben 6 anni prima del disciplinare sul bourgogne) con barbatelle importate dalla “zona dei muretti” praticamente la seconda casa del barone: la Borgogna. In vendemmia 2013 il sant’Elia è stata una rivelazione nel calice dopo ben 24 ore di ossigenazione controllata in bottiglia (si apre la bottiglia e si aspettano 15′ circa quindi si richiude capovolgendo il tappo in modo che quel poco di ossigeno lavori lentamente) con la sapidità lavica già nettamente percettibile al naso e poi ritrovata in bocca con tutta la piacevole “terrosità” su uno sfondo di piccoli frutti di bosco poco maturi. Nonostante gli 11 anni dalla vendemmia, è ancora un bimbo con un costo di 30 euro quasi sottodimensionato. Passiamo al secondo vino proseguendo con un’acidità (secchezza) importante ma alzando i toni del tannino, della gradazione alcolica (14) e del bouquet (pulito) oltre che della “gioventù” del prodotto; il “viva la libertà” è un vino “decisamente” rosso con un bordo quasi violaceo proveniente da un vecchio impianto di 44 anni in zona Ripattoni di Bellante, una vigna “dimenticata” e recuperata da Giada e Gaetano, due giovani che hanno abbracciato una filosofia di vita in sintonia con la natura fondando l’azienda Amoenus, un luogo “autentico”, che va alle origini della vita rurale italiana! Enologo lui, trevigiana e quindi con il savoir faire imprenditoriale innato lei, hanno creato un ecosistema in cui la massima del monaco Bertrand de Clairvaux “il cielo origina , la terra nutre e l’uomo affina” trova ragion d’essere. Nel calice, il montepulciano d’abruzzo domina (80% circa) ed il vecchio clone di sangiovese (20%) gli dona una nota di eleganza sottoforma di aroma di violetta!
La “posa” naturale che alberga sul fondo della bottiglia “veglia” sull’integrità dei sapori e longevità del vino; un vero archètipo con un tannino importante che è riuscito a pulire il palato dal pinot nero. Il prezzo? 14 euro per sole 515 bottiglie! Bravi, ragazzi! Con il terzo vino esploriamo la categoria dei rossi secchi, con sapori vegetali ben integrati con quelli di frutti rossi ma in chiave iper strutturata sia a livello di tannino che di grado alcolico. Anche qui troviamo un’atipicità territoriale che, mani sapienti e ricche di passione hanno “colto”; trattasi di un cabernet franc in purezza (vitigno progenitore come il pinot nero il cui nome deriva da carbonet cioè il color carbone del vinacciolo) le cui barbatelle “madri” provengono dal luogo natìo cioe Bordeaux. Siamo a Bolgheri, piccolo terroir toscano (5×20 km.) in provincia di Livorno dove nel 1915 il conte Incisa della Rocchetta, appassionato di vini bordeaux, crea una piccola succursale della nota località francese fondata da un certo Caio Giulio Cesare sulle rovine di un accampamento celtico (burdigala); forma ad anfiteatro con le colline metallifere a “proteggere” i vigneti ed a dare mineralità al suolo ed il mare a mitigare le temperature, impregnare l’aria di sapidità salmastra e prolungare le ore di luce riflettendo gli ultimi raggi di sole fino a sera (siamo ad ovest). Qui, i vitigni ammessi sono il cabernet sauvignon (nato dall’incrocio di cabernet franc e sauvignon blanc quindi non puro), il merlot, il petit verdot ed il cabernet franc, privilegio di alcuni dei 33 produttori di Bolgheri; Dario Di Vaira è colui che ne possiede ben 11 filari ed infatti, uno dei suoi bolgheri superiore reca in etichetta C.F. 11 cioè cabernet franc 11 filari oltre al marchietto “vignaioli indipendenti” che ne garantisce l’artigianalità.
Nel calice, ritroviamo il colore del pinot nero ma con una tonalità decisamente più scura ed al naso i “sapori verdi” ben integrati con il frutto ci fanno capire che abbiamo a che fare con un altro archètipo; in bocca tutto ciò appena detto viene confermato ma con una grassezza (ha ben il 15% di volume alcolico) e potenza decisamente inusuali per un cabernet franc dimostrandosi un VINO COMPLETO. Strutturato, complesso, equilibrato nel rapporto acidi-tannini / zuccheri ed UNICO! Bravo questo viticoltore- artigiano che ha saputo imporsi sui concorrenti blasonati del suo territorio che oramai hanno perso l’identità storica. Il costo di 75 euro è più che giusto e comunque inferiore al precursore Sassicaia tenuta s. guido. Passiamo all’ultimo rosso alzando ancor di più la gradazione alcolica (15,5%) ed il tannino ma virando decisamente verso la morbidezza ottenuta con un lungo affinamento in botti di diversa capacità. Il Colleforca 2015 è un montepulciano d’abruzzo DOCG colline teramane concepito e prodotto da Massimiliano Cori della tenuta Torretta situata a Torano Nuovo in contrada colleforca dove il panorama si ammira a 360 gradi; mare, maiella, gran sasso, monti gemelli, ascensione e sibillini fanno da cornice a questo splendido terroir dove il vento è padrone! Il vino è tanta roba ma………c’è un ma anzi due: il prezzo, non proprio economico di 40 euro e una certa perdita di varietale (sia di tannino che di acidità) rispetto al “quasi montepulciano” assaggiato come secondo vino ma anche rispetto alla versione 2008 dello stesso colleforca.
L’impressione, condivisa dalla maggior parte dei degustatori, è che il lungo affinamento abbia “addomesticato” un vino nato “wild” per giunta con una certa invadenza del legno. Dolce finale con un vino dolce ma non troppo: il moscato rosa dell’alto adige Praepositus dell’Abbazia di “Novus Cellae” (1142). Il vitigno è a bacca rossa ma l’inconfondibile aroma di petali di rosa gli ha conferito il nome, appunto, di moscato rosa. Di origine siriana è arrivato in alto adige nel lontano 1816 quando un principe “borbone” siciliano prese in moglie una reale asburgica e, trasferendosi in alto adige, portò con sè alcune marze (barbatelle) di moscato “rosso” che, paradossalmente trovò un terroir più adatto al suo dna con elevate escursioni termiche notturne, suolo di arenarie (sabbie calcificate) e sottosuolo calcareo (dolomia). Ne ho assaggiato diverse versioni ma questa dell’abbazia di novacella è la migliore. Cinque giorni di contatto con le bucce con blocco della fermentazione leggermente tardivo (per far trasformare più zuccheri del mosto in alcool e risultare meno dolce) per ottenere un vino che entra in bocca dolce ma subito dopo diventa saporito, terroso e speziato con il pepe nero a dominare.
Volgarmente parlando ci è sembrato quasi un pinot nero in versione dolce ed è evidente che il contatto sulle bucce abbia “lasciato” qualche tannino; veramente unico, ha dato il meglio di se abbinato ad un formaggio moderatamente stagionato (piemonte valgrana) ma anche con la crostata di frutti di bosco se l’è cavata bene! Il costo di 33 euro per una bottiglia da 0,375 è giusto se si tiene conto dell’unicità del prodotto e con il fatto che basta per 6-7 persone. Concludendo, è stato possibile dimostrare la notevole varietà dei nostri vitigni con soli 5 vini; figuriamoci con venti, sempre scelti in modo consapevole.Penso di aver assolto bene al mio compito di enotecario cioè portarvi ad una sorta di “quadrivio” (il vino dolce è una categoria a sè) in modo da capire la “strada” da intraprendere più adatta ai vostri sensi per poter scoprire il “vostro” vino usando tutto ciò come una sorta di “misuratore caratteriale”: dimmi che vino scegli e ti dirò chi sei!
Stefano Grilli – ENOTECA SARAULLO ANNO DOMINI 1966 – TORTORETO