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Teramo

Investimento di Tortoreto: la lettera aperta del figlio Simone

lOCATELLI

Tortoreto. Sono passate due settimane dal tragico investimento sul lungomare Sirena, a Tortoreto, che è costato la vita a Roberta Fiano.

Una vicenda che ha scosso tutti, per tutta una serie di motivi.
In queste ore il figlio della donna, Simone Tarli, ha diffuso una lettera aperta.

La lettera

 

Il lavoro dei giornalisti, si sa, è quello di diffondere l’informazione. Che si tratti della verità in quanto tale o di una verità parziale non è importante. In stato confusionale e sotto shock, è difficile raccontare come sono andate le cose o scindere ciò che è successo da ciò che sarebbe dovuto succedere. Provo a dire la mia, a ormai due settimane dall’accaduto.
Tutti noi vogliamo vivere, poi ognuno di noi sceglie come farlo.

 

E mia madre, Roberta Iampieri Fiano, voleva vivere. Proprio perché voleva vivere, quel 18 aprile del 2023, dopo una visita da un cardiologo, era andata al pronto soccorso di Giulianova. Dopo aver appurato che il cuore funzionava bene, i medici del pronto soccorso le hanno fatto diversi esami per escludere un passato infarto miocardico e un’embolia polmonare. Non era stata ricoverata a lungo, ma solo tenuta sotto osservazione tutto il giorno a causa di una tosse sospetta e un poco di affanno dopo gli sforzi. Nulla di grave, nulla di irreparabile, probabilmente gli strascichi di un covid non ben curato o comunque di una piccola polmonite avuta tra fine febbraio e inizio marzo.

Io ero a Napoli quella mattina e mi sono messo in viaggio per Giulianova. Giuseppina, la sua cara amica, l’aveva accompagnata la mattina e io le avevo raggiunte partendo da Napoli, dove mi trovavo per lavoro. Alle 20.23 siamo usciti dal pronto soccorso. Giuseppina, quel giorno, era stata tanto disponibile da meritarsi, insieme con la compagna Antonella, una pizza offerta. Dovevamo andare in una pizzeria a Giulianova, ma quella sera pare non facesse la pizza. Così abbiamo deciso di tornare verso casa (siamo di Villa Rosa) e di fermarci a Tortoreto. “Andiamo dal cinciarinio!” Mi ha detto mamma e ci siamo diretti lì. Una serata spensierata, ilare, divertente. Non vedevo mia madre tanto serena da prima della morte di mio fratello.

Era ora di tornare a casa, eravamo stanchi. Ci siamo alzati per andare alla mia macchina, parcheggiata sui parcheggi blu lato mare, un po’ più a sud del ristorante. Siamo scesi dal marciapiede e, all’altezza dei parcheggio lato ristorante, lei e Giuseppina si sono abbracciate. Io e Antonella eravamo proprio dietro di loro. Finito l’abbraccio, Giuseppina le ha messo una mano sulla spalla e hanno fatto per attraversare. Ebbene, non c’è stato tempo di fare nulla perché dopo il primo passo, abbiamo sentito una gran frenata e abbiamo visto un furgoncino grigio scuro che veniva da nord sbandare. Nel caos dell’attimo in cui tutto questo è successo, il furgoncino ha preso l’altra corsia contromano per cercare, invano, di evitare mamma e Giuseppina. Un istante pareva le avesse evitate, ma l’ultima sterzata è andata proprio contro di loro. E poi l’impatto. Ricordo quel rumore, lo rivivo in ogni istante. Ho paura di chiudere gli occhi perché non faccio che vedere quella scena e sentire quella botta.

Era il furgoncino dell’alba basket. Dopo l’impatto è andato a finire contro il marciapiede lato ristorante, all’altezza di via Ovidio. Roberto Ionni, che era alla guida, è subito sceso e, insieme ad altre persone che erano al ristorante, ha prestato soccorso a mia madre. “C’è polso”, dicevano tutti. Ho chiamato subito i soccorsi. Sono arrivati i paramedici, hanno provato in tutti i modi a salvare mamma che purtroppo è spirata poco dopo..
Poi sono svenuto e mi sono ritrovato sull’ambulanza con mio zio, Tino. Sconvolto anche lui e in lacrime. Tremavo. Respiravo a fatica. Pare che la mia pressione fosse a 190-160, mi hanno detto che ho rischiato un infarto. Dopo tanti tentativi, mamma non c’era più. E non c’era più perché, come dice zia Teresa, un uomo quella sera aveva deciso di uccidere Sì, sono frasi dette per rabbia, ma forse zia ha ragione. Perché se in un piccolo paese di mare, alle 21.50 circa di un giorno di primavera, dopo qualche bicchiere di troppo, vai a quella velocità elevatissima, assurda per la cosiddetta “zona 30”, vuol dire che non ti interessa se il tuo atteggiamento possa ferire qualcun altro. Forse, date le circostanze, quello di Roberto Ionni potrebbe quasi essere un omicidio volontario più che stradale. Senza vittima precisa, ma con una vittima a caso. E il caso ha voluto che la vittima di Roberto Ionni fosse mia madre. Ironia della sorte, hanno anche lo stesso nome.

Con tutte le riserve che nutro verso tutto e tutti, e cercando con queste mie parole di spargere un po’ più di verità su mia madre e sul momento che, per quanto breve, mi ha stravolto l’esistenza, spero che venga fatta veramente Giustizia. Probabilmente, grazie a mia madre, si sono salvate tante altre persone da quell’uomo che è un pericolo pubblico. Uno così non dovrebbe guidare nemmeno la bicicletta.
Quella sera gli ho chiesto infinite volte il motivo per cui andasse così veloce. Magari aveva un’urgenza, era successo qualcosa. E invece no, era il suo modo di guidare. Come un pazzo, per divertimento o, forse, veramente per uccidere. Non mi ha riposto, mi ha solo implorato piangendo di perdonarlo. Ci proverò, anche se, ai miei occhi, Roberto Ionni è solo un assassino inconsapevole.
Nel frattempo, spero che lui riuscirà a perdonare se stesso e a convivere con il suo senso di colpa.
Mi ha spezzato la vita. Mi ha fatto il cuore in frantumi e le schegge sono dolorose.
Nemmeno la morte ha ucciso mia madre. La sento sempre. Spero solo di riuscire a coprire il rumore assordante di quell’impatto per concentrarmi sul suo cuore che batte nel e con il mio.

Simone

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